Carissimi confratelli,
Carissimi membri della Famiglia Salesiana,
Carissimi membri delle CEP locali,
Carissimi giovani,
In questi giorni, scorrendo i quattro vangeli, stupisce pensare che ci siano così pochi versetti sulla
Resurrezione. Sembra quasi che anche i vangeli apprezzino più il Venerdì Santo e che la Passione
conti più della Resurrezione, come sembrano dimostrare tante tradizioni religiose. Del resto le
pagine della passione e morte di Gesù ci sono molto care perché sono la dimostrazione di quanto
Gesù ci ha amato ed è fin troppo chiaro che poterono essere scritte in maniera diffusa perché di esse
i protagonisti avevano viva memoria. Tuttavia – viene da pensare – quanto ci sarebbe stato più utile
avere qualche notizia più certa sulla Resurrezione: abbiamo semplicemente una tomba vuota e
alcuni testimoni che lo hanno visto da risorto. Il centro della fede è senza dimostrazione! E oggi
quanto ci servirebbe una certezza; nei giorni in cui brancoliamo cercandola nella scienza medica
senza trovarla (e non la troveremo mai definitivamente lì), quanto avremmo bisogno delle prove che
ci rassicurino sulla resurrezione!
Ma il Signore sa. Ai contemporanei di Gesù tutto quello che fu dato fu sempre e solo una tomba
vuota e (pochissime) persone che lo videro risorto. Ma furono accese di Spirito Santo. E cambiarono
il mondo.
Oggi avremmo bisogno di quel genere di persone.
Noi non dobbiamo andare molto lontano a cercare quel genere di persone, perché abbiamo don
Bosco. Abbiamo appena concluso il Capitolo Generale 28°, che dopo 60 anni ha visto il ritorno a
Valdocco. Proprio a Valdocco la Cappella Pinardi, che celebra l’inizio dell’Oratorio, è il luogo più
“pasquale”. Don Bosco è entrato lì per la prima volta coi suoi ragazzi in un giorno di Pasqua. Come
quest’anno era il 12 aprile. Quella che vediamo adesso è la ricostruzione della cappella fatta negli
anni ’20 del secolo XX, che ha preso l’impronta della Pasqua. Sopra l’altare nell’affresco è
rappresentato il Cristo che risorge vittorioso, e sotto l’altare un mosaico che rappresenta un agnello
sgozzato ma in piedi come dice l’Apocalisse. La Pasqua era così legata alla vita di don Bosco che fu
anche canonizzato il giorno di Pasqua ed era una Pasqua particolare: il 1 aprile 1934 chiudeva il
Giubileo della Redenzione, come a ribadire una volta di più l’importanza della salvezza portata da
Cristo con la sua Resurrezione.
Sono un po’ di giorni che pensando a don Bosco mi saltano agli occhi alcune semplici coincidenze o
similitudini, in particolare tra quel 1846 e il 2020.
Oggi:
- Il mondo è paralizzato dal rischio di una malattia polmonare.
- Pasqua 2020: è il 12 aprile.
- Oltre a tante altre persone, molti (salesiani, suore, laici, collaboratori) si ammalano e alcuni
muoiono.
- A causa di questa situazione siamo lontani fisicamente dai ragazzi e non sappiamo quando
potremo tornare e cosa faremo quando torneremo.
Al tempo di don Bosco:
- Nel 1846 mentre girovagava coi suoi ragazzi in cerca di una sistemazione definitiva per il
suo oratorio, Don Bosco era malato ai polmoni. Molti si ammalavano ai polmoni a quei
tempi: di polmonite Giovanni Bosco aveva già perso il padre nel 1817 e perderà anche
Mamma Margherita nel 1856.
- Pasqua 1846: era il 12 aprile.
In quel giorno, dopo mesi di angosce e preoccupazioni (un “venerdì santo” di passione e un
“sabato santo” di apparente grande silenzio di Dio) arriva una “resurrezione” e don Bosco e
i suoi ragazzi entrano nella tettoia Pinardi, luogo definitivo dell’oratorio.
- Poco dopo, la malattia si aggrava e don Bosco arriva in punto di morte; si salva
miracolosamente, grazie alla preghiera dei suoi ragazzi.
- Don Bosco a motivo della sua salute dovrà stare lontano per diversi mesi dai suoi ragazzi ma
quando tornò si avviò la crescita per la quale siamo qui anche noi oggi.
Mi chiedo cosa vorranno dire tutte queste cose, forse solo coincidenza o una mia lettura forzata.
D’altra parte qualcuno potrà certo notare che ci manca l’analogia più importante, perché mentre don
Bosco a Pasqua vide un segno di resurrezione, noi nella pratica viviamo un venerdì santo che si
allunga anche nel tempo di Pasqua – e chissà per quanto – senza molte tracce di umane resurrezioni,
anzi. E siamo pure in attesa di vedere quale energia positiva si sprigionerà al nostro ritorno fisico in
mezzo ai ragazzi e alla gente.
In questi tempi abbiamo dovuto familiarizzare nostro malgrado con la morte. Al tempo di don Bosco
c’era più dimestichezza. Ci si muoveva come in uno slalom tra malattie, carestie e guerre, qualcuno
restava in piedi e qualcuno cadeva. La mortalità anche tra i ragazzi era molto alta e le paroline
all’orecchio premonitrici di don Bosco erano comprese non come “iettature” (come ci direbbero oggi
i ragazzi), ma come avvertimenti di qualcosa che poteva succedere tranquillamente anche ai giovani;
in questo senso si capisce anche la pratica degli esercizi della buona morte, che noi poi abbiamo
chiamato semplicemente ritiri o esercizi spirituali. Si capisce pure il pensiero che don Bosco ebbe in
quel 1846 a un passo dalla morte; avrebbe potuto essere giustamente arrabbiato di morire a neanche
31 anni e invece scrive nelle sue Memorie dell’Oratorio come si sentiva: “Ero pronto a morire. Mi
rincresceva abbandonare i miei ragazzi, ma ero contento di morire dopo aver dato una forma stabile
all'Oratorio”. Sappiamo come andò a finire: furono i suoi ragazzi e le loro preghiere a salvarlo. C’era
molta più dimestichezza con la morte, ma di pari passo c’era molta più dimestichezza con la
Resurrezione. Non dimentichiamo mai il binomio che è un trinomio: “onesti cittadini, buoni
cristiani, fortunati abitatori del cielo”. Don Bosco puntava al terzo, lavorando sui primi due: la sua
mira era la felicità eterna. E questo suo scopo, lungi dall’essere qualcosa che lo estraniava dalla vita
reale, gli moltiplicava le forze: “ci riposeremo in Paradiso” e “ho promesso a Dio che fin l'ultimo
mio respiro sarebbe stato per i miei poveri giovani” non erano né battute né frasi eroiche, ma il modo
di dire di chi guarda alla mèta preparata e lavora sodo, non per meritarsela ma per ringraziare del
dono. un dono dato per certo. E l’importanza delle feste all’oratorio era sostenuta dalla certezza che
c’è una festa che le sostiene tutte, ed è la Pasqua e senza la quale ogni festa è irrimediabilmente
esposta al vuoto. Le feste per lui dovevano essere un anticipo del Paradiso (“vi aspetto tutti in
Paradiso”).
Ecco il ritratto di un testimone della Resurrezione. Ecco il ritratto di un “risorto”.
Il Signore Risorto ci è vicino e cammina accanto a noi. Ce lo dicono quelli che l’hanno incontrato.
Egli è apparso alla Maddalena che piange, per chiamarla per nome e chiamare per nome tutti noi
che piangiamo.
È apparso a Tommaso e ai discepoli di Emmaus scoraggiati e dubbiosi, per confortare la loro e la
nostra fede scoraggiata e dubbiosa.
È apparso agli Undici impauriti, per dire a loro e a noi impauriti: non abbiate paura.
È apparso di nuovo ai discepoli stanchi, per preparare per loro del pesce arrostito (!) per poi mandare
loro e noi (stanchi) in missione ai confini della terra.
Noi non possiamo sapere di preciso cosa il Signore inventerà per le nostre comunità religiose, per le
nostre comunità educative, per i nostri ambienti educativi che hanno chiuso fisicamente, ma trovano
mille modi per stare vicino e stanno capendo che non sono semplicemente ambienti, ma degli stili,
dei modi di essere e di educare. Non possiamo sapere cosa suggerirà per i nostri oratori che
dovranno rispondere a domande nuove; per le nostre parrocchie che dovranno ripartire con vecchi
e nuovi poveri e con molti di più assetati di Cristo; per le nostre scuole e i nostri CFP che dovranno
ripartire in uno scenario sempre più incerto; per servizi verso i giovani più poveri che dovranno
ripartire trovando un bacino di destinatari molto più ampio e i granai più vuoti…
Sappiamo però che il Signore Risorto ci è vicino e cammina accanto a noi e non potrà essere semplice
ripartenza, ma un cambio di passo. Per noi stessi, per i giovani, per il mondo.
La Maddalena guardava sconsolata la tomba vuota. Arrivò Gesù e lei lo scambiò per il giardiniere.
Poi riconobbe il Maestro e rinacque.
Don Bosco nel prato Filippi si sentiva abbandonato da tutti. Arrivò Pancrazio Soave e lui pensò che
fosse solo uno che non aveva capito la differenza tra laboratorio e oratorio. Poi riconobbe il luogo
dove avrebbe cominciato tutto.
Noi, mentre festeggiamo la Resurrezione, ci sentiamo ancora nel prato Filippi. Non possiamo sapere
chi sarà il nostro Pancrazio Soave o dove sarà la nostra tettoia Pinardi, ma sappiamo che il Signore
Risorto ci è vicino e cammina accanto a noi.
Dobbiamo essere bravi a riconoscerlo. I “risorti” lo sanno riconoscere e indicano la strada.
Buona Pasqua!
Don Stefano
12 aprile 2020
Pasqua di Resurrezione